martedì 30 settembre 2014

Colle di Cadibona

Stamani mentre un autobus mi portava al Colle di Cadibona da dove speravo di incrociare l'alta via, nella mia memoria cercavo di ricordare perché mai questo Colle mi era noto nel nome ma non nel perché. Altri passi e colli ben segnati sulla mappa nulla mi dicevano. Solo Cadibona mi tornava alla mente come il nome di un fugace amore. Forse una battaglia, forse una corsa di che sa che, forse qualcosa di geologico ma per mille ipotesi nulla di certo se non il nome noto: Cadibona.
Lasciato l'autobus subito trovai i segni bianchi e rossi ed il mio passo sostenuto dalla piccola gioia del ritrovarsi, incominciò a salire veloce per la erta. Ormai il Colle di Cadibona sembrava avermi solo dato la giusta direzione e le ipotesi e domande stavano scomparendo come i dolori alla nuova fatica.
Non avevo osservato che la strada sotto si era infilata in una galleria ed ora io stavo per scavalcare finalmente il vero Colle di Cadibona. Un piccolo slargo, una bandiera, qualche panca di pietra e, e un cartello di quelli da pochi soldi con lo stemma del CAI una scritta: qui finiscono ed iniziano le alpi e gli appennini!
La risposta finalmente. E poi un sorriso nel cercar di ricordare le infinite alpi che di li iniziavano con per l'appunto le marittime.
Oggi ho girato a destra e iniziato a camminare dagli appennini. Ma dove finiscono non ricordo.



giovedì 25 settembre 2014

il passeggero

Il passeggero chiamò per tempo la fermata. C'erano solo tre passeggeri sull'autobus ed io li davanti che mi gustavo le aspre ed alte colline che precedono la pianura. L'autista, forse soprapensiero e complice un altro bus che occupava la fermata, la salto!
Il passeggero con calma venne avanti e chiese come mai. "non hai suonato!" fu la risposta che teneva in nessun conto cortesia e grammatica italiana ma forse solo il colore della pelle del passeggero.
"e poi non hai timbrato il biglietto! Me lo ha detto il collega!" le fermate intanto passavano ed il povero passeggero vedeva con occhi tristi sfumare la possibilità di essere puntuale.
"Ecco il biglietto!" l'autista lo guarda e l'attimo di silenzio che segue fa capire che tutto è a posto ma chiedere scusa e fermarsi è ammettere forse che quel uomo bello tondo e gentile che ben si adatta al carattere di quelle valli, non è quello che povere idee continuano a illustrare. "mi tengo il biglietto...." "no per cortesia, il biglietto è mio e me lo restituisce, qualcuno alla fermata me lo potrebbe chiedere". Cavolo! Due a zero e penso che intanto si sono fatti almeno cinque km ed il povero passeggero, oltre che a rodersi il fegato per la discussione che ha tentato di farlo sentire un nulla, dovrà farsi a piedi i km di ritorno.
Troppo gentile io al suo posto sarei scoppiato.
Finalmente scende e vorrei scusarmi per la cosa ma ha poco valore.
Se ne va.
A quel punto l'autista con freudiano senso di colpa, cerca in me quella solidarietà di cui una coscienza comunque ben formata, ha bisogno quando sente di aver sbagliato.
"bastava chiedere scusa e fermarsi il prima possibile" rispondo!
Apriti cielo! "ho scoperto che è colpa mia se questa nazione va a remengo....è colpa di quelli che come difendono quei bastardi che ci rubano tutto...e poi per finire lui comunque non gli importa nulla perché il suo stipendio comunque lo prende..."! Lascio che si sfoghi e poi complice lo smartphone in mano mi balena una satanica idea: "continui la prego sto registrando tutto..." silenzio!
Chiamerò a testimoniare a difesa la signora...."vero signora?" silenzio!
La signora un po' prima aveva raccontato di essere di Taranto migrata anche lei come il passeggero di prima.
Povero autista delle valli bresciane.
Fossi la SIA gli offrirei una trasferta di un anno, pagata naturalmente, a guidare autobus in Nigeria o qualche altro posto così.

martedì 23 settembre 2014

viaggio

ho ordinato le cose che a prima vista saranno necessarie per il nuovo viaggio. Un bel paio di pantaloni con una buona camicia nel caso capiti di uscire per una cena elegante: la cravatta pure.
Qualche cambio di biancheria per qualche giorno, magliette e calzini. Ho pure tirato fuori nuovamente il vecchio fornellino a meta con nescaffè e zucchero per fermarsi magari lungo la strada a gustarsi assieme al paesaggio un caffè caldo. GPS, panello solare, batteria di riserva, cavi la tecnologia è pronta ed ora non serve nemmeno un libro tanto potrò continuare a leggere con e_book.
Ho infilato tutto nel  piccolo zaino e ci sta tutto; poi ho incominciato a chiedermi se quella tal cosa, quella tal maglietta proprio servirà e così piano piano lo zaino si è alleggerito. Ora lungo il viaggio si potrà riempire questo nuovo spazio con le cose incontrerò e che rapiranno la mia fantasia.
Ho pensato a lungo dove andare ma al solito la meta pur importante, non è detto che in questo tempo sia importante. Più importante mi è sembrato il come perchè è attraverso questa modalità che cambia l'essenza del viaggiare. E così rimarrò in Italia ma mi muoverò lentamente usando i miei passi che si fan giorno per giorno per giorno incerti, Qualche autobus, magari qualche treno ma solo locali. Cercherò paesini, luoghi, persone ove e con cui sedersi e fermarsi. C'è sempre una sorta di immagine che proiettiamo in attesa della prossima meta. Può coincidere, ci può deludere ma il più delle volte ci affascina perché per l'appunto, è migliore e più ricca della nostra immaginazione. Domani si va. Finalmente ancora. 

giovedì 11 settembre 2014

Yack

Ieri ho sentito Yack. Il suo vero nome è Jacoub ma lui non so perchè, preferisce farsi chiamare americanamente Yack e la sua famiglia viene da Betlemme. Era in ospedale accanto alla vecchia madre che mi sorprendeva sempre per la lucidità con cui parlava in un ottimo inglese dovuto alla occupazione e ai casini che quella nazione ha combinato laggiù e non solo laggiù.
Ho ricordato quel venerdì (giorno di festa laggiù) mattino che passò a prendermi da casa ed insieme alla vecchia madre andammo a Rabia, quartiere di Amman, dove secondo Yack preparavano il miglior humus della città. Poi dopo averne comperato molto per la giornata che ci attendeva, ci avviammo fuori città lungo strade che salivano chine impervie punteggiate qua e la da magri olivi o povere viti. Arrivammo nella casa di campagna. Le donne aprirono gli scuri, attivarono il pozzo, misero fuori al tiepido sole dell'inverno le sedie ed incominciarono a parlare in una lingua per me incomprensibile alle parole ma non al significato come son tutte le lingue perché parlate dagli stessi cuori.
Yack mi porto giù lungo il podere. parlava delle piccole piante di vite, dei fichi che stavano dando frutto, del melograno che a fatica sosteneva i pieni frutti. Lo ascoltavo e in quel momento ho pensato di aver ritrovato il fratello che avevo perso qualche anno prima e che come Yack amava il lavoro, la famiglia, la bella moglie e la casa di campagna dove poter fuggire.
Provai più tardi a scrivere a Yack tutto questo ma il mio inglese non è così efficace anche se credo Yack abbia ben capito. 
Poi arrivò Widad con il vecchio padre. Palestinesi anche loro. Si sedette accanto a me e mi chiese dell'Italia e ridemmo mentre io chiedevo della Palestina di allora e lui dell'Italia come ragazzi assetati di sapere. Mangiammo humus, phalephel, tabule, agnello parlammo, raccontammo, bevemmo vino perchè seppur arabi tutti erano cristiani e per un momento quella collina sembrò diventare Scanucia. 
Yack e Widad verranno a trovarmi ed io chissà quando ritornerò in quel deserto che mi ha rapito il cuore mentre turbini di sabbia improvvisi ti circondano come pensieri che corrono sempre nel tuo cuore.